Amare se stessi è un cammino, un arte e dell'arte non potevo evitare di occuparmi qui con una mia carissima amica e performer Giò Lacedra
Ciao Giò le tue performance riflettono un tuo modo di concepire il corpo ce ne vuoi parlare?
Ciao
Emanuela! È un piacere far due chiacchiere con te! Beh, posso rispondere a
questa domanda con una precisazione: le mie performances più che riflettere un mio
modo di concepire il corpo, usano il corpo per raccontare le fatiche e le
sofferenze di cui è vittima e al contempo carnefice. Nelle mie performances il
corpo è veicolo espressivo. Narra di disagi radicati altrove, ma che dal corpo
vengono manifestati o subiti. Ho affrontato tematiche quali Anoressia e Bulimia
(come con la performance “Io Sottraggo”), violenza e prevaricazione di genere
(come con la performance “L’Aspirante”), depressione e psicosi (come con “Come
il mare in un bicchiere”), suicidio (come con “Edge | Ultmo Ritr-atto”), a
volte partendo da miei personali vissuti, altre volte analizzando la biografia
di poetesse come Sylvia Plath. Ma il corpo resta sempre lo strumento con cui
una donna grida il proprio dolore.
La
consapevolezza che il mio pubblico è grandiosamente sensibile. Perché sa
concentrarsi con grande rispetto su ogni mia azione, entrando in una empatia
lirica e decisamente commovente per me. Ho la fortuna di avere un pubblico
all’altezza di comprendere una mia carezza data con dita bagnate di mare. “Come
il mare in un bicchiere” racconta di un corpo-prigione, poiché di un
corpo-sintomo di un violento stato di cattività interiore si tratta. Il bicchiere
che contiene il mare è il corpo somatizzante; il corpo risultante da una
depressione feroce, da un’anima tenuta in catene. È un corpo incapace di
rendersi espressione dell’emotività che lo abita… è un corpo-camicia-di-forza
per l’anima. Ma durante l’azione performativa questo corpo si ribella… l’anima
sconfina… torna ad essere fluida… torna ad essere mare. E il pubblico la
riceve, senza remore. Perché il mio pubblico sa sentire e sa ascoltare.
Amare se
stessi è un duro lavoro. È un’ardua impresa. È una montagna da scalare ogni
giorno, ad ogni occasione in cui quella tendenza primigenia ad una severa
autocritica e ad un atteggiamento autosvalutante, nuovamente tenta di avere la
meglio. Amare me stessa è la mia scommessa quotidiana. È il mio lavoro
quotidiano. In cui parzialmente riesco, parzialmente no. Non sono una di quelle
che dice “Yeeeaaahhh! Ho vinto la mia battaglia con la vita, sono completamente
guarita, ho sterminato tutti i miei fantasmi!”. No. Diversamente da quanto si
potrebbe pensare, guarire dal disamore per se stessi equivale a stabilire un
dialogo con quei fantasmi, equivale a percorrere, come fossero sentieri, i
solchi lasciati nel cuore dall’aratro delle cattive memorie. Amare se stessi
significa essere in pace col proprio bambino interiore. Io ci sto dialogando da
anni. Ho avvicinato quella bambina. Mi ha perdonato tante cose, sì. Sta iniziando
davvero a fidarsi di me. Ma ogni tanto mi guarda ancora a sottecchi. Perché ha
paura. Altre volte, invece, accetta di
giocare con me. E questo, credimi, è già moltissimo, se ripenso al punto da cui
sono partita.
· Ami definirti affamata d'amore. Come questo diventa nutrimento per le tue performances?
Non ho
mai amato definirmi affamata d’amore. Ho semplicemente espresso un dato reale.
Più precisamente, quando ho lasciato parlare la me stessa reduce dai disturbi
della nutrizione – che, lo ricordiamo, non sono disturbi dell’appetito ma
dell’affettività – ho desiderato fortemente spiegare, da io narrante quale
autobiograficamente ero, dove si annidava il germe della patologia: in una fame
non di cibo, ma d’amore, appunto. Anoressia e bulimia sono il recto e il verso
della medesima medaglia. Un’anoressica si affama di quell’amore che non può
ricevere, che non ha mai ricevuto, che quindi non può più permettersi di
desiderare; per sopravvivere a quel vuoto d’amore si arma di ipercontrollo: dal
momento che non lo può avere, smette di desiderarlo. Il desiderio è una fame. Smettere
di aver fame, non sentirla, equivale a smettere di desiderare, anestetizzare
con la rinuncia, il desiderio. La fame d’amore viene spenta dall’assuefazione
al digiuno affettivo. Il rifiuto diviene una corazza. Mi difendo dall’assenza
dell’amore, smettendo di averne fame. Sentendo la fame così tanto da non
sentirla più. Facendomi a tal punto vuota da dimenticare cosa significhi essere
occupati da qualcosa. Essere pieni d’amore. Una bulimica, parallelamente,
divorando cibo divora l’amore che non può avere, l’amore che ha perso, l’amore
che desidera. La fame è insaziabile proprio perché mai veramente saziata. Proprio
perché non è di fame di cibo che si tratta. Si mangia all’infinito proprio
perché la fame che ci spinge verso il cibo non è fame di ciò che ingurgitiamo,
ma di altro. È fame d’amore. Appunto.
· Domanda di rito: la Giò del futuro si vede fiera del suo corpo ma sana?
La Giò
del presente è una donna che ha imparato ad accettare il proprio corpo. Qualche
volta, sì, lo teme ancora. Ma sono attimi, frangenti debolissimi, che si
dileguano rapidamente. La Giò del presente rispetta il proprio corpo, lo scruta
meno, lo studia meno, lo analizza meno. Non si pesa, non si condanna, mangia
senza più sensi di colpa. La Giò del futuro si vede madre. Quindi sì, sarà
ancor più fiera del proprio corpo, dal momento che questo genererà la vita. Ed
è questo il vero miracolo che fa straordinario il corpo di ogni donna.
Foto di Massimo Prizzon
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