martedì 5 agosto 2014

Giò Lacedra si racconta fra arte, sensibilità e bisogno affettivo


   Amare se stessi è un cammino, un arte e dell'arte non potevo evitare di occuparmi qui con una mia carissima amica e performer Giò Lacedra


Ciao Giò le tue performance riflettono  un tuo modo di concepire il corpo ce ne vuoi parlare?
Ciao Emanuela! È un piacere far due chiacchiere con te! Beh, posso rispondere a questa domanda con una precisazione: le mie performances più che riflettere un mio modo di concepire il corpo, usano il corpo per raccontare le fatiche e le sofferenze di cui è vittima e al contempo carnefice. Nelle mie performances il corpo è veicolo espressivo. Narra di disagi radicati altrove, ma che dal corpo vengono manifestati o subiti. Ho affrontato tematiche quali Anoressia e Bulimia (come con la performance “Io Sottraggo”), violenza e prevaricazione di genere (come con la performance “L’Aspirante”), depressione e psicosi (come con “Come il mare in un bicchiere”), suicidio (come con “Edge | Ultmo Ritr-atto”), a volte partendo da miei personali vissuti, altre volte analizzando la biografia di poetesse come Sylvia Plath. Ma il corpo resta sempre lo strumento con cui una donna grida il proprio dolore.

 ·         Cosa ti ha dato la performance "Come il mare in un bicchiere"?
La consapevolezza che il mio pubblico è grandiosamente sensibile. Perché sa concentrarsi con grande rispetto su ogni mia azione, entrando in una empatia lirica e decisamente commovente per me. Ho la fortuna di avere un pubblico all’altezza di comprendere una mia carezza data con dita bagnate di mare. “Come il mare in un bicchiere” racconta di un corpo-prigione, poiché di un corpo-sintomo di un violento stato di cattività interiore si tratta. Il bicchiere che contiene il mare è il corpo somatizzante; il corpo risultante da una depressione feroce, da un’anima tenuta in catene. È un corpo incapace di rendersi espressione dell’emotività che lo abita… è un corpo-camicia-di-forza per l’anima. Ma durante l’azione performativa questo corpo si ribella… l’anima sconfina… torna ad essere fluida… torna ad essere mare. E il pubblico la riceve, senza remore. Perché il mio pubblico sa sentire e sa ascoltare.

 ·         “Amare se stessi è l'inizio di un idillio che dura tutta una vita” dice Oscar Wilde e per Gio Lacedra?
Amare se stessi è un duro lavoro. È un’ardua impresa. È una montagna da scalare ogni giorno, ad ogni occasione in cui quella tendenza primigenia ad una severa autocritica e ad un atteggiamento autosvalutante, nuovamente tenta di avere la meglio. Amare me stessa è la mia scommessa quotidiana. È il mio lavoro quotidiano. In cui parzialmente riesco, parzialmente no. Non sono una di quelle che dice “Yeeeaaahhh! Ho vinto la mia battaglia con la vita, sono completamente guarita, ho sterminato tutti i miei fantasmi!”. No. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, guarire dal disamore per se stessi equivale a stabilire un dialogo con quei fantasmi, equivale a percorrere, come fossero sentieri, i solchi lasciati nel cuore dall’aratro delle cattive memorie. Amare se stessi significa essere in pace col proprio bambino interiore. Io ci sto dialogando da anni. Ho avvicinato quella bambina. Mi ha perdonato tante cose, sì. Sta iniziando davvero a fidarsi di me. Ma ogni tanto mi guarda ancora a sottecchi. Perché ha paura.  Altre volte, invece, accetta di giocare con me. E questo, credimi, è già moltissimo, se ripenso al punto da cui sono partita.

·         Ami definirti affamata d'amore. Come questo diventa nutrimento per le tue performances?

Non ho mai amato definirmi affamata d’amore. Ho semplicemente espresso un dato reale. Più precisamente, quando ho lasciato parlare la me stessa reduce dai disturbi della nutrizione – che, lo ricordiamo, non sono disturbi dell’appetito ma dell’affettività – ho desiderato fortemente spiegare, da io narrante quale autobiograficamente ero, dove si annidava il germe della patologia: in una fame non di cibo, ma d’amore, appunto. Anoressia e bulimia sono il recto e il verso della medesima medaglia. Un’anoressica si affama di quell’amore che non può ricevere, che non ha mai ricevuto, che quindi non può più permettersi di desiderare; per sopravvivere a quel vuoto d’amore si arma di ipercontrollo: dal momento che non lo può avere, smette di desiderarlo. Il desiderio è una fame. Smettere di aver fame, non sentirla, equivale a smettere di desiderare, anestetizzare con la rinuncia, il desiderio. La fame d’amore viene spenta dall’assuefazione al digiuno affettivo. Il rifiuto diviene una corazza. Mi difendo dall’assenza dell’amore, smettendo di averne fame. Sentendo la fame così tanto da non sentirla più. Facendomi a tal punto vuota da dimenticare cosa significhi essere occupati da qualcosa. Essere pieni d’amore. Una bulimica, parallelamente, divorando cibo divora l’amore che non può avere, l’amore che ha perso, l’amore che desidera. La fame è insaziabile proprio perché mai veramente saziata. Proprio perché non è di fame di cibo che si tratta. Si mangia all’infinito proprio perché la fame che ci spinge verso il cibo non è fame di ciò che ingurgitiamo, ma di altro. È fame d’amore. Appunto.


·         Domanda di rito: la Giò del futuro si vede fiera del suo corpo ma sana?

La Giò del presente è una donna che ha imparato ad accettare il proprio corpo. Qualche volta, sì, lo teme ancora. Ma sono attimi, frangenti debolissimi, che si dileguano rapidamente. La Giò del presente rispetta il proprio corpo, lo scruta meno, lo studia meno, lo analizza meno. Non si pesa, non si condanna, mangia senza più sensi di colpa. La Giò del futuro si vede madre. Quindi sì, sarà ancor più fiera del proprio corpo, dal momento che questo genererà la vita. Ed è questo il vero miracolo che fa straordinario il corpo di ogni donna. 

Foto di Massimo Prizzon


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